Клаудио Поццани Генуя хандрящая

Genova, saudade e spleen

1 La notte dentro il mio giardino

Se una notte io inciampassi

nel tetto del campanile

sepolto nel mio giardino

e se tutt’intorno

non regnasse

che il vano sogno di ruggito

del mio gatto annoiato,

cercherei di attaccare

il tuo viso alle costellazioni

usando il filo dei miei bottoni

e quello dei miei ricordi

E quei bottoni

caduti fra le rose

seminerebbero alberi

con maniche al posto di rami

o verrebbero creduti navi aliene

da formiche e falene.

Mi sfilerò la spina dorsale

e la metterò a sostenere piante di pomodori

o me la toglierò per provar l’ebbrezza

di sentirmi sacco vuoto

dopo una vita passata da polena

col petto in fuori

a schivar colpi e tempeste

Diventerò grumo informe

dove i miei organi possano finalmente stringersi la mano

dopo aver lavorato per anni in uffici separati

senza incontrarsi neppure

davanti alla macchina per il caffé

dei miei occhi chiusi per sonno.

Movimenti notturni nel mio giardino

e brezze siderali

le radici degli alberi cercano tane di talpe

da calzare come guanti neri

Il firmamento è un armadio lasciato aperto

con stelle buchi di tarma

Senti questo vento

quanto assomiglia agli oscuri bisbigli

che captavamo sulla strade di Patmos

questo soffio continuo

che fa ondeggiare come tergicristalli

le fronde dei miei salici con le cetre attaccate

che paiono ramazzare via le stelle

ammucchiandole in un angolo del cielo

in attesa della scopa di raggi di sole

e la paletta del mio guanciale.

Ho strappato la falce alla Morte

per aggiustare il prato

per il nostro pic nic di domani

Ti preparerò un’insalata di fogli di calendari

e quadranti d’orologi

perché dentro al tuo seno

possa albergare una rampa di lancio

per i nostri viaggi infiniti

Ci sarà una tovaglia piena di cibi

e vino a volontà

che il mio vicino Tyco Brahe

ha prodotto tra sestanti e numeri scritti a matita

sarà una festa con canti rauchi di roveti

con scatole di biscotti

piene di rotaie da metterci ai piedi

e amici invisibili che ci faranno stare bene

Ma ora, con questa falce in mano

in mezzo al buio

m’inebrio ancora dell’odore acre di incendi lontani

e delle nozze di ferro e cemento

dell’autostrada vicina

seguo la rotazione del mondo

dentro al mio giardino

con la luna che scompare e riappare

dietro i ciliegi.

Il cancello grida la sua voglia di grafite

alle lampade che ballano attorno alla veranda

Sono convinto che ci sia qualcosa tra loro

tra la sua voglia di staccarsi dai cardini

e la loro ansia di sputare fuori il cuore di tungsteno

Movimenti notturni nel mio giardino

e vertigini abissali

mi sembra quasi di nuotare nel cono di un vulcano

o nel lavabo di un gigante

quando misuro di notte la bellezza della vita.

2 Aperitivo in centro

Il mio cuore è una sedia vuota

dove nessuno si vuol sedere

e il cervello una spugna fradicia

che gli angeli strizzano nel tuo bicchiere

E quel tuo sguardo d’ossidiana rovente

che ti scivola lungo il naso fino a farsi bacio

e più giù, fino alle nostre ginocchia

che si toccano, si evitano

scambiandosi desideri d’ossa e sinoviti

Aperitivo in centro

e non so che cosa dire

Tavolino, piattini, seni sotto il maglione, orlo di bicchieri:

è un delirio di rotondità che sfugge

e falena sbatte contro i vetri del tuo silenzio

La strada balla veloce sulla coda dei nostri occhi

Le dita sono ganci per appendere i tuoi sorrisi

Dammi una parola da incorniciare stasera sopra il mio letto

ché è stufo, sai,

delle lacrime di madonne

e dello stillicidio di stigmate perenni

Dammi i tuoi piedi

e magari sdoppiali

così che li possa far calzare al tavolo di cucina

e baciarli ad ogni prima colazione

inginocchiandomi in orazione laica e carnale

Oppure alzati, andiamo.

Apri quel compasso abbronzato

che fu usato per tracciare l’equatore

Contro il tramonto

il tuo profilo nero

s’intreccia con la stenografia delle cime di colline

e ogni tuo passo è un punto esclamativo.

Lasciami essere camicia

sotto il ferro rosso della tua lingua

Lasciami essere mare

per le tue mani seppie

gonfie d’inchiostro e certezze

E questa notte ascolterò il gioco d’arpa dei tuoi piedi sottili

tra le lenzuola e le fiamme

e chiuderò i tuoi palmi

dopo averci letto

l’ultimo indimenticabile capitolo

della mia giornata.

Lascia che sia io ad aprire la porta dei tuoi sogni

prima di posare

i miei occhi sul comodino

e il mondo sulle spalle di Atlante.

3 Sono

Sono l’apostolo lasciato fuori dall’Ultima Cena

Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio di Quarto

Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede

Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto che non cede

Sono il protagonista che muore nella prima pagina

Sono il gatto guercio che nessuna vecchia vuol carezzare

Sono la bestia idrofoba che morde la mano tesa per pietà

Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto senza età

Sono l’onda anomala che porta via asciugamani e radioline

Sono il malinteso che fa litigare

Sono il diavolo che ha schivato il calamaio di Lutero

Sono la pellicola che si strappa sul più bello

Io sono l’escluso, l’outsider, un chiodo nel cervello

Sono la pallina del flipper che cade un punto prima del record

Sono l’autorete all’ultimo secondo

Sono il bimbo che ghigna contro le sberle della madre

Sono la paura dell’erba che sta per essere falciata

Io sono l’escluso, l’outsider, questa pagina strappata

4 A mia madre

Ti ho visto in faccia in quella stanza

io sporco di sangue e muco

tu stravolta e curiosa

Ho tentato di dirti

che non ero sicuro di voler restare fuori di te

ma le parole che avevo in testa

nella mia bocca si impastavano male

Avevo appena imparato

che tutta la vita sarebbe stata ipocrisia e paradosso:

ti avevo appena fatta soffrire

ti avevo fatta sanguinare

eppure ero io a piangere

e tu a sorridermi

Ti ho visto in faccia in quella stanza

mentre mi portavano via

C’era troppa confusione per dirti quanto fossi felice

di poter finalmente dare un viso

al ventre che mi aveva ventre

E più tardi con i miei colleghi

si discuteva di reincarnazione,

di eterno ritorno, dei cicli di Vico,

ma non vedevo l’ora di rivederti

e di conoscere il tuo uomo e vostro figlio

dei quali sentivo la voce ovattata e lontana.

Ti ho visto in faccia in quella stanza

e darei tutto quello che ho

perricordarmene.

5 Antininnananna

Chissà cosa c’è al piano di sopra

Aratri di sedie e rimbalzi di grida

mentre veli di tende mi nascondono il sole

in questo salotto dove il nulla m’assale

Ho provato a bussare con la scopa al soffitto

sono andato più volte a suonare alla porta

ma solo suoni oscuri dalla dubbia coerenza

sono stati la risposta ai miei tentativi

Sembravano preghiere con scoppi di risa

e sibili, sonagli e sospiri sommessi

voci moltiplicate come ci fosse una folla

e fastidiosi ronzii di radiointerferenze

Cosa diavolo ho sopra la mia testa

una scatola magica che contiene l’inferno

una porta da cui non esce mai nessuno

Un soffitto mi separa da un mondo che non so

E le notti son lunghe se la paura m’incalza

se le voci di sopra mi scavano dentro

se uno strano presagio m’induce a pensare

che se ora chiudo gli occhi, giammai li riaprirò.

6 Epicedio

Non sento orti

dentro me

solo steppa e tundra

Nessun fruscio di crescita o di vita

Nessuna trasformazione

Nessun organo di luce

Soltanto scie grigie

come vortici di numeri di roulette

e lampi magri

come radici di pianta carnivora

che divora angeli e aerei

al di sopra delle nubi

Non sento porti

dentro me

solo navi bombardate

Nessun formicolio di pulsante gioia attiva

Nessun trasporto o sollevamento

Nessun roteare di fari

Soltanto voragini e banchine sbrecciate

solo ganci di gru abbandonate

che dondolano al vento come donne impiccate

Non sento morti

dentro me

solo scheletri e silenzi

Nessun ricordo spezzato

come un ombrello dal temporale

Nessuna ernia da sollevamento lapidi

Nessun cacciavite a inchiavardare bare

Soltanto un asindeto di visioni amare

solo semafori lampeggianti grigio

in incroci deserti orfani di clacson

Non sento forti

dentro me

solo tende strappate

Nessuna donna che si fa sull’uscio

a salutare l’uomo che va via

Nessuna casa dalla schiena di pietra

Nessuna chiesa con le croci intere

Soltanto ombre impresse sui muri

e ponti che percorre solo il vento

e solo il vento un giorno potrà ritornare.

7 Un giorno mi ritroverete

Un giorno mi ritroverete

a giocare

con i gabbiani

sul declivio di Ostenda

o con i loro colleghi

seduto sui foruncoli pietrosi

di Leça da Palmeira

Un giorno mi ritroverete

a bussare inutilmente

al teatro abbandonato

di Ulica Piotrkowska

o a camminare

sbandando da un muro all’altro

nelle calle della Candelaria

Un giorno mi ritroverete

ad ascoltare per ore intere

la sinfonia in re bemolle

del vento settembrino

nei caruggi o nei barrios

Un giorno mi ritroverete

a contare i mattoni

delle chiese di Bruges

o a farmi insultare

per le strade di Oslo.

Un giorno mi ritroverete.

Per adesso, smettete di cercarmi.

8 Palingenesi

Mi sembra impossibile

essermi lasciato la battaglia dietro di me

clangori d’armi

e quell’odore dentato

di carne e ferro

le urla che uscivano dagli occhi

le urla che rimanevano inscatolate negli elmi svitati dal busto

le urla che diventavano sangue

e come sangue si rapprendevano e si raffreddavano

E quante braccia che si levavano

da corpi immobilizzati e deliranti

come radici alla ricerca dell’acqua

Un tappeto di erba e rumore

è quello che gli zoccoli sotto di me

calpestano felpati

Non so da quanto sia

aggrappato alla criniera

a voltarmi indietro

sputando terrore a ogni secondo

Sono appena uscito dall’inferno

la testa ovattata

e quei rumori metallici

a scavarmi dentro

come cucchiaio

che s’ostina a pescare dal piatto

l’ultimo goccio di minestra

Deglutisco il mondo ad ogni momento

e poco dopo mi è di nuovo in bocca

mentre zolle si sollevano

e danzano attorno al galoppo

Nessuno ormai mi sta seguendo

sulla via che mi conduce a casa

tra poco sarò libero di riemergere dalla morte

In un’ansa del fiume mi fermo a bere

e pulire le ferite

Rivolgo il mio viso al Cielo

e i miei occhi si schiantano sulla nuca

Nelle orbite vuote

nidificheranno avvoltoi e vendette,

la mia lingua diventerà un’agave spinosa

Perfino il mio cavallo ha uno sguardo gelido

da gatto scalciato per la strada

non vede l’ora di fare la strada al contrario

e ritornare in quel campo di morte

a riprendersi l’orgoglio

Abbiamo diviso l’attacco e la fuga

il furore e la paura

soltanto per tornare a sentire le tue mani

Altrimenti saremmo rimasti là,

perdendo un brandello per volta

per aiutare più zolle possibili

a diventare fertili

La sera cade

e intravvedo la nostra casa

solo rovine, distruzione, il tuo corpo smembrato

le tue mani che non sanno più scaldarmi

le tue mani finite come un gioco qualsiasi

gli avvoltoi stanno riposando nelle mie orbite vuote.

Domani li porterò a nutrirsi.

9 Una vita fuori posto

Forte con i forti

debole con i deboli

incapace ad obbedire

non adatto a comandare

tangendo il successo

sempre un passo indietro

ed il corpo troppo avanti.

Forte con i forti

debole con i deboli

ho distrutto vite

senza fare prigionieri

trascinando le catene

per tenermi sveglio.

Ho lasciato una scia umida e nera

come lumaca ulcerosa e maledetta.

Ho lasciato in eredità

un banco vuoto

in una classe d’asilo.

Forte con i forti

debole con i deboli.

10 Ho vomitato l’anima

Ho vomitato l’anima

ieri

e adesso mi sento più leggero

posso nuotare libero

senza zavorre di rimorsi e cattiverie

Ho vomitato l’anima

ieri

e ho sporcato il cesso

Non so cosa mi uscisse dal corpo

sembrava limatura di ferro

mischiata a cotone insanguinato

forse aveva segato le sbarre

per poter scappare

forse si era ferita

forse infettata

Ho vomitato l’anima

ieri

ma non è stato come me l’aspettavo

Pensavo che attendesse

le trombe del Giudizio Universale

la barca di Caronte

o almeno un rintocco di diafane campane

Niente.

Non ce la faceva più a restarmi dentro.

Scalciava

Urlava

Soffocava

e io mi forzavo

sopportavo

perché pensavo che fosse indispensabile avere un’anima

e anche lei pensava d’aver bisogno d’un corpo

E’ strisciata via dalla mia bocca

la sua coda era lunga e spinosa

e si agitava guardandosi attorno

Ho vomitato l’anima

ieri

e chissà dov’è finita

Sembrava fatta di mercurio

imprendibile

come quando ce l’avevo dentro

e mi rovesciavano come un guanto

restando attoniti davanti alle mie pareti lisce

Ho vomitato l’anima

ieri

e oggi i Nullibisti di Henry Moore

mi vogliono già come loro capolista

alle prossime elezioni

Appena sei vuoto

vieni scelto per rappresentare gli altri

Un bidone che può contenere

più rifiuti possibili

Rifiuti di carta

Rifiuti di carne

Rifiuti nati per essere rifiuti

Rifiuti fatti per non essere rifiuti

Ho vomitato l’anima

ieri

e forse mi manca già:

non so più con chi mentire

quando sono solo

quando sogno solo

Il letto a volte m’ingoia

mi accoglie sorridente

e poi si piega a metà

come una pizza mangiata con le mani

e io mi sento digerito nei sogni

digerito bene quando non li ricordo

digerito male quando i miei occhi

al risveglio si spalancano di colpo e mi sputano fuori

Ho vomitato l’anima

ieri

e forse se ne sta nascosta nel sifone

arringando grumi di capelli, microbi, saponi

e incrostature nere di chissà cosa

Cosa starà dicendo di me?

Se ne parlerà male ogni mattina il lavabo

s’intaserà per sciopero

Eppure anche voi, Popolo dello Scarico,

avevate fiducia del mento che intravvedevate dal buco

Non lasciatevi corrompere anche voi come ho fatto io

ora lei è la vostra guida come lo è stata per me,

vi farà diventare profumati, bianchi & puliti

Un Popolo dello Scarico senza identità

Voi abituati a guardare dal basso in alto

e a provarci gusto

Come quando io bambino alzavo lo sguardo

e vedevo le nuvole marzoline

impigliarsi nei baffi di mio padre

o la mano di mia madre

che pendeva come una liana

a cui appendermi sicuro

Ho vomitato l’anima

ieri

e fu forse rigurgito infantile,

latte e biscotti al plasmon

scaldati dal mio giovane ventre

Avere un’anima al plasmon

Al napalm, al plancton, al clacson

Avere un’anima e vomitarla

e quel vomito animarlo

Non è colpa mia se anche stasera

sono costretto a inventarmi storie che nessuno mi racconta mai

e non è neanche questione

d’essere un eterno bambino,

perché gli altri non sono cresciuti

sono soltanto già morti

e al Cimitero sì, ci vado a giocare,

ma la noia ben presto si trasforma in zanzare buie

Mangio bestie morte fatte a fette

Ho l’immagine di un moribondo sopra il mio letto

Ho studiato e amato le opere di uomini morti

Le cose morte mi hanno sempre nutrito corpo e anima

E il primo è dannatamente vivo e instancabile

E la seconda addirittura è fuggita via

Ho vomitato l’anima

ieri

e chi se ne frega

Al primo freddo rientrerà da sola

come un gatto scappato sui tetti

che rientra starnutente e arruffato

Forse si starà proprio azzuffando

con i gatti che in varie epoche mi sono stati accanto

e che per tutta la loro vita

amarono di me soprattutto le mani

quando si trasformavano in ciotole piene

o in spazzole ossute calde

Ho vomitato l’anima

ieri

ma tu mi sei rimasta dentro

Eravate nella stessa cella

e lei se n’è andata senza dirti nulla

o sei tu che sei voluta restare:

ti manca poco per uscire regolarmente

perché scappare, dunque?

No, tu mi sei rimasta dentro

dentro come sempre

E’ uscito di tutto dal mio corpo

Umori, bestemmie, sogni, raffreddori, denti da latte

Adesso anche l’anima

E’uscito di tutto, dicevo,

tranne te

e tranne me

Ho vomitato l’anima

ieri

sembrava un mazzo di rose sul pavimento

come uno di quelli che mi facevano arrossire al ristorante

perché non sapevo cosa dovevo fare

e ti avrebbe tenute le mani occupate tornando a casa

Quelle mani, ahimè soltanto due,

che avrei voluto sanguisughe da salasso su di me,

dieci, venti soffici ventose tiepide sulla schiena

a togliere umidità, vuoto ed amarezza.

Ho vomitato l’anima,

ieri.

11 La donna dalle lacrime dolci

Sei la donna dalle lacrime dolci

Ogni tuo gesto è una fiamma leggera

Sei l’ombra, sei il gatto che fugge e poi ritorna

Sei l’impatto del treno contro i rami sporgenti

Un alambicco pieno di mercurio e di zolfo

bolle di notte tra i tuoi seni perfetti

Quanti a. lchimisti hanno perso i polmoni

inseguendo i fumi del tuo corpo sudato!

Sei la donna che detta il ritmo delle stagioni,

che dimezza l’attesa tra un mio battito e l’altro

Sei Venere che sorge da una colata di lava

Sei Psiche che tiene sempre accesa la luce

Calpesti la terra e neanche ti accorgi

che ad ogni tuo passo prende vita un giardino

Per i tuoi capelli il vento sta ringraziando Dio

per avergli donato uno scopo di vita

12 Danzo

Danzo la danza delle idee geniali

sperando che tu mi dica qualcosa di nuovo

Danzo la danza dei perdenti e perduti

sapendo che i miei passi saranno vani

Danzo la danza degli ingenui felici

credendo che il mio sudore serva a qualcuno

Danzo la danza dei profittatori

e danzerò finché mi pagherai

E danzo, danzo, danzo

per vincere la mia arroganza

Danzo, danzo, danzo

il perché non ha importanza

Danzo la danza dei maledetti

perché lo spleen mi arriva fino al torace

Danzo la danza dei presuntuosi

perché anche tu lo sei se ti credi al mio livello

Danzo la danza degli indesiderati

mi sono allenato molto davanti alle porte chiuse

Danzo la danza degli insofferenti

ti puoi spostare un po’ più in là, per favore?

E danzo, danzo, danzo

fino a che resterò in piedi

Danzo, danzo, danzo

perché sei tu che me lo chiedi.

13 Vengo a portarti una poesia di Neruda

Ho un galoppo nel cuore

e onde al guinzaglio

Di questo mare insepolto

impasterò vento e sabbia

per costruire i tuoi piedi rumorosi

e sentirli danzare dentro i miei occhi

Per raggiungerti salgo

dal mare alla collina

La mia testa si ridisegna stella

per chiamare le tue voci

Le mie labbra si arcuano stanche

in sorrisi autunnabondi e distratti

E io sono qui,

su questo autobus che scuote il mio corpo

come un dado

come un tappeto

arrancando su polverose strade

rese mute dalla pioggia improvvisa

Le farfalle applaudono al mio passaggio

sbattendo le ali

sopra le pozzanghere che ingoiarono Narciso

Ho un galoppo di onde

nel mio cuore al guinzaglio.

Portami dove si possa dimenticare

questo secolo che ci vede esiliati,

questi temporali

che non riescono più a rinfrescarci,

queste celebrazioni e abbracci

che sembrano inutili corone di fiori.

Il mare è laggiù

lontano come un progetto abbandonato

le ruote sparano sassi e ricordi

sulla salita che la tua casa mi srotola davanti

Sono l’intagliatore di foglie di carciofo

e ti porto in dono sagome di nubi

A te,

bicchiere dall’orlo sbeccato

che non posso baciare senza ferirmi

A te,

orecchio reciso e gettato su un prato

per ascoltare i segreti delle formiche

A te,

porto in dono la mia giacca logora,

la mia resistenza

e questa poesia smarrita di Pablo Neruda.

14 Tua assenza: prato, spiaggia e autostrada

Appoggiato ad un prato verticale

aspetto una farfalla che mi porti in su

C’è un palazzo col labbro leporino

con i balconi feriti dai gerani

Ho impastato cuori e fili d’erba

ho trovato un nido di frullini

fra poco il vento mi parlerà di te

Ho trovato un passaggio segreto

dentro le tasche dei miei calzoni

Spiagge deserte e scogli turchesi

e ciuffi di candelabri accesi

Il tuo corpo inghiottito dalla sabbia

i tuoi occhi diventano girini

adesso il mare appartiene a te

La tua schiena è una calda ipotenusa

che porta ad un’area di servizio

Il mio braccio una netta tangenziale

che sfiora i tuoi cavalcavia

Son rinchiuso in un’oliva con le ruote

e respiro finti aromi di foresta

– non riesco ancora a far senza di te

15 Pensierino

Quante volte

caro signor Maestro

col ditino alzato e lo sguardo severo

mi ammonisce dicendo

«se tutti facessero come te»

intendendo che la mia attività culturale

non serva al progresso del Paese,

a far ripartire la sua economia

e neppure, essendo artista, a far fiorire la mia

Ma allora

una volta per tutte

caro Signor Maestro

mi lasci dire

che se tutti facessero come me

non ci sarebbero polizie

perché perfino alle zanzare chiedo scusa

e mi appello comunque alla legittima difesa

quando le sgiornalo contro il muro

non ci sarebbero eserciti

perché l’unico Paese che voglio invadere

è quello delle emozioni altrui

e l’unico territorio che devo difendere

è l’intimità dei miei affetti e dei miei pensieri

non ci sarebbero aguzzini e aguzzine

che con la loro concezione totalitaria dell’amore

devastano la vita di chi li ha incontrati

ché se vuoi bene a una persona

vuol dire che vuoi il suo bene

indipendentemente da cosa ti dà

Quindi

è meglio che non mi dica più

«se tutti facessero come te»

perché si rischierebbe di vivere in un mondo meraviglioso

di avere un sacco di tempo libero

di fare le cose che si amano

Ma ora mi viene alla mente

caro signor Maestro

che se vivo in un mondo che fa schifo

allora lo devo a lei e alla maggior parte delle persone

che non sono come me

che se ne fregano degli altri

e soprattutto se ne fregano di se stessi

A lei e a loro dovrei chiedere i danni

e forse le miei poesie sono proprio questo:

sono i moduli per sporgere reclamo

E sto anche pensando,

signor Maestro,

che per la legge dei numeri che lei mi ha spiegato così bene

allora anche in questa sala

c’è un sacco di persone che mi costringe a vivere male.

A questi non voglio più rivolgere né sorrisi né parole.

Io mi appello agli altri.

Alzatevi in piedi e fatevi vedere.

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